DAY 4: ARRIVO A VICO

16 luglio 2020 Lascio alle 6 la bella Carpino. Saluto Isabella e mi avvio verso l’ultima tappa per Vico. Tappa breve oggi, dovrebbero essere 20 km ma non metterei la mano sul fuoco. Dopo soli 4 km arrivo al bivio che manda all’area archeologica di Monte Civita. Segnata male, segnali di sentieri mai esistiti e una bacheca ormai vuota. È da anni che il Gargano è organizzato così; ora il Presidente del Parco del Gargano ha cercato l’intervento di un tecnico laziale per riorganizzare al meglio tutta la sua area. Spero che la sua scelta sia quella giusta, anche se ritengo che nei paesi garganici qualche tecnico valido c’è e la mia idea di coinvolgere il territorio nella sua organizzazione possa servire sia a ricercare e trovare soluzioni operative ottimali che possano avere collegamenti con la sua storia e sia per far sentire la società dauna e le sue associazioni parte attiva della costruzione territoriale e quindi con un legame affettivo più profondo in una terra tanto bistrattata dai suoi stessi abitanti. Ma mi auguro che la visione del Presidente Pazienza sia più giusta e lungimirante della mia. Non salgo a Monte Civita perché il tratto verso Vico prevede salite e discese molto ripide e io ne faccio volentieri a meno: oggi c’è qualcosa che non va nel mio motore, non riesco a velocizzare il passo. Forse pago lo sforzo di ieri.

Continuo anche il mio viaggio a ritroso nella mia vita. Oggi affronto gli anni 50! Cosa ricordo di quegli anni? Molto poco e quel poco non è piacevole. A sette anni ho marinato la scuola avendo conosciuto un vero e proprio Lucignolo che mi propose una bella mattinata da trascorrere in un bar in cui c’era un favoloso calciobalilla. Non so come ma l’infame che ha fatto la spia ha armato la mano di mia madre col bastone di una scopa che mi ha battuto a tal punto che, il giorno dopo, ho passato le ore di lezione in classe in piedi: non “potevo” sedermi! Altro ricordo che riaffiora è una grassa infermiera che, sorridendomi, si complimenta per i miei bellissimi denti chiedendomi di mostrarglieli aprendo la bocca. L’incubo che vivo qualche volta è di un aggeggio strano che mi dilata la bocca fino a spaccarmi i suoi bordi, di un demone che con una luce in fronte mi si avvicina con uno strumento di tortura e mi provoca in gola un dolore ancora più forte della bocca spaccata. Il tutto senza che io potessi reagire in quanto serrato dai tentacoli della grande piovra in camice bianco. Ho perso così le mie tonsille ma ho acquisito un tremendo ricordo. Altro ricordo, piacevole questa volta, è fatto di giornate di giochi passati al Ginolisa, l’aeroporto militare di Foggia dove abitavo, facendo la guerra fra le due squadre in cui ci eravamo divisi e che vedeva il nostro perfetto campo di battaglia fra i ruderi di vecchie case ormai diroccate. Ancora la grande festa per la prima comunione fatta insieme a mio fratello svoltasi in un bar mangiando un dolce con la crema ciascuno e due grandi bicchieri di acqua fresca di frigo. Certo che, guardando con questa lente la mia infanzia negli anni ’50, il quadro che ne viene fuori non è eclatante, però allora ci accontentavamo di poco: un coperchio di pentola incastrato nella spalliera di una sedia diventava il manubrio di un’auto da corsa e un bicchiere colmo di neve pressata con uno spruzzo di vincotto di fichi era una granita da re; un tozzo di pane vecchio saporitissimo da rosicchiare addrizzava i denti e una fetta di pane fresco spruzzato con acqua ed un filo di zucchero era la merenda che metteva allegria. La televisione non c’era e le serate invernali si passavano davanti al camino guardando attentamente le scintille provocate dai ciocchi di legno in fiamme e che nella nostra fantasia diventavano meravigliosi fuochi di artificio in un cielo scuro. Una vita fa! Ma questo Cammino al contrario mi è servito a qualcosa nei quattro giorni appena passati in cammino da Foggia a Vicolo Cesarone? Si, sono stato tante ore con me stesso rivedendo un film sorpassato dal tempo ma sempre piacevole a vedersi; dura troppo, come Via Col Vento, ma la storia è quella.

Oggi il clima è stato clemente fino alle 11. Poi il sole ed il caldo hanno cominciato a infierire. Sono entrato in Vico con un solo pensiero in testa: un gelato gigante dal Pizzicato! Il Pizzicato è una antica gelateria e pasticceria del paese che fa parte della storia vicaiola; passare da Vico e non fare visita al Pizzicato significa aver visto poco del paesino. Entro nel bar e prendo un gelato gusto pistacchio-ricotta e gelsi neri: ma che vi devo raccontare, in dieci minuti a occhi chiusi mi sono rigenerato di cento chilometri di cammino. Trangugiato il gelato e, vinta la tentazione di prenderne un altro, attraverso il centro e mi avvio verso la mia meta, Vicolo Cesarone. Qualcosa è cambiato, il numero 6 non c’è più e fra il 5 e il 7 ora c’è una finestra. Le casette 5-6 e 7 ora sono di un unico proprietario che ha unito tutto. Certo non era pensabile che dove riuscivamo a vivere in cinque negli anni cinquanta, senza acqua né scarichi, si potesse vivere oggi. La pavimentazione del vicolo è stata cementata e non si vedono più le rocce sottostanti, tutto è silente e nessun profumo di ragù si sente nell’aria. Mi siedo sul pijedd come faceva mia nonna per lavorare ai ferri e, con la testa fra le mani cerco le voci e l’allegria di un tempo; queste ritornano nella mia mente come in un Amarcord casalingo e tristi sorrisi credo che affiorino sulla mia bocca insieme a qualche lacrima non trattenibile. Mi immagino su quei pochi metri fra una casa e l’altra fare i miei primi passi con le scarpette di pezza nera, cercare si salire quei gradini con l’apprensione di nonna Libera che ripete tranquillamente: <Michè stai attento, non fare così che ti fai male, gioca “cu i nucedd” seduto, non metterti le mani in bocca che c’è la terra!> Immagino commara Porzia che si informava: < ha dormito stanotte? > <poco perché non digerisce ancora bene, “ten i cijj n’da panz”. Michè, vid che ti dò, nu bell tozz di pane saprit!> E poi il momento più bello della giornata quando rientrava Zio Peppino dalla campagna con Donna Rosa al seguito. Io gli correvo (si fa per dire) incontro e lui mi sollevava e mi metteva a sedere sulla sella finchè non scaricava tutto il basto del giorno e ricoverava la docile asinella nella stalla!

Un grande momento intenso al culmine di un cammino di una vita. Un incontro della stessa persona in momenti opposti. E la vita è questa, una nascita, una crescita, una marea di esperienze, di gioie, di dolori, di successi, di sconfitte e poi . . .! Ma credo che un elemento importante è anche ciò che si lascia agli altri e, soprattutto ai figli che, anche se inconsapevolmente, continueranno a trasmettere i pensieri e i valori che tu hai trasmesso loro. Concludo qui il mio viaggio a ritroso nel tempo della mia vita consapevole e speranzoso di poter lasciare ancora qualcosa di bello e utile agli altri. Con Amore

Michele

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